04 Mag La diffamazione? È più grave se è su Facebook
La rapida evoluzione dei mezzi di comunicazione, in particolare con l’avvento dei social network quali Facebook o Twitter, sta portando cambiamenti anche a quelle che sono le regole del vivere civile e delle relazioni, e oggi si può essere considerati al cospetto di più persone anche standosene soli nella propria stanza ma davanti a un Pc o uno Smartphone.
Ne sanno qualcosa coloro che, e cominciano a essere in tanti, stanno venendo condannati per frasi e affermazioni lanciate dai propri profili sui social network, in particolare Facebook.
Una delle ultime sentenze italiane al riguardo, del primo marzo 2016 da parte della Corte di Cassazione, aggiunge anche una particolarità in più a quello che ormai viene dato come assodato: l’offesa di qualcuno su Facebook è diffamazione. E ora è addirittura considerata “diffamazione aggravata”, come cioè, se fosse stata diffusa a mezzo stampa.
Nello specifico il fatto oggetto della sentenza della Corte, era una vicenda riguardante delle offese rivolte a un rappresentante della Croce Rossa Italiana della Sicilia, che erano state postate sulla bacheca dell’imputato – poi condannato – ritenute offensive e corredate in più occasioni anche da foto che ritraevano la persona offesa.
Per l’Alta corte – che ha rigettato il ricorso presentato dall’imputato – nel caso specifico, anche se non ci fossero state le foto, si era in presenza del reato di diffamazione che è però da considerarsi aggravata, in quanto si deve “presumere la ricorrenza del requisito della comunicazione con più persone, essendo per sua natura destinato ad essere normalmente visitato in tempi assai ravvicinati da un numero indeterminato di soggetti“. Il riferimento è alla bacheca del profilo Facebook dell’imputato, poiché precisa proprio l’alta corte “ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, sia perché, per comune esperienza, bacheche di tal natura racchiudono un numero apprezzabile di persone (senza le quali la bacheca Facebook non avrebbe senso), sia perché l’utilizzo di Facebook integra una delle modalità attraverso le quali gruppi di soggetti socializzano le rispettive esperienze di vita, valorizzando in primo luogo il rapporto interpersonale, che, proprio per il mezzo utilizzato, assume il profilo del rapporto interpersonale allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione”.
Nel caso specifico è stata quindi giudicata legittima la condanna a 1.500 euro di multa, più il pagamento delle spese processuali.
Attenzione quindi a quello che si scrive quando si utilizzano i social network con intento liberatorio o come veicolo di sfogo. Le conseguenze potrebbero essere più serie di quanto si immagini e oltretutto, aprire anche la strada, non solo ad azioni penali, ma anche a successive azioni risarcitorie in sede civile.
L’antico adagio di “contare fino a 10 prima di dire qualcosa”, può tornare utile quindi anche quando si sta per scrivere qualcosa sui social network.
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